lunedì 27 dicembre 2010

Il significato del counseling nella sofferenza

τό διαλέγησθαι εστί τό μήγιστον αγαθόν (Socrate)
La Parola “sofferenza” viene dal latino “sub-ferre, portare sotto, in basso, quasi a voler sottolineare una posizione di sudditanza dell’uomo rispetto al dolore. La sofferenza è la risonanza emotiva del dolore ed è costitutiva della natura e del mistero dell’uomo. Chiunque nell’arco della propria vita ha incontrato la sofferenza. Lo stesso Freud riteneva il dolore psichico come necessario per la costituzione dell’Io che, attraverso la frustrazione di una perdita, abbandona lo stato di onnipotenza infantile per giungere al principio di realtà.

Il mondo della sofferenza invoca altresì un altro mondo: quello dell'amore umano, della cura del prossimo, dell’aiuto e della solidarietà. Il termine counseling deriva dal verbo inglese to counsel, che risale a sua volta dal verbo latino consulo-ĕre, traducibile in "consolare", "confortare", "venire in aiuto". Il medico non si occupa solo della sofferenza che si estrinseca nel dolore fisico per la quale vi sono rimedi farmacologici: vi sono sofferenze, definibili morali, che non si curano con un farmaco e che sono vissute e rappresentate in modo diverso in ciascuno di noi in relazione alla propria storia, alla propria personalità, alla propria disposizione neurobiologica. La nostra capacità di comprendere la sofferenza deve però partire dalla constatazione che non vi è riconducibilità ad un dato esclusivamente biologico o psicologico. La persona, unità di corpo, mente e spirito, è investita totalmente dall’esperienza del dolore.

Una prima considerazione è che il soffrire rimanda sempre alla ricerca di un senso, come suggerisce lo scrittore Saul Bellow, Nobel per la Letteratura, nel libro “Il re della pioggia”: La sofferenza è forse l'unico mezzo valido per rompere il sonno dello spirito. E’ esperienza comune che ogni malato si pone la domanda: “Perché proprio a me?”. Una domanda che spesso ci viene rivolta negli ambulatori medici nel tentativo di ricevere un aiuto nella ricerca di una risposta. La ricerca di un senso è connaturata all’esistenza come insegna Victor Frankl. Il non trovare un senso espone all’angoscia esistenziale, alla nevrosi noogena. Scrive Frankl, internato in un lager nazista: “Raccontai ai miei compagni” che la vita umana ha sempre, in tutte le circostanze, un significato, e che questo infinito senso dell'essere comprende anche sofferenze, morte, miseria e malattie mortali. Dissi loro che in queste ore difficili qualcuno guardava dall'alto, con sguardo d'incoraggiamento, ciascuno di noi, e specialmente coloro che vivevano le loro ultime ore; un amico o una donna, un vivo o un morto, oppure Dio. E questo qualcuno s'attendeva di non essere deluso, che sapessimo soffrire e morire non da poveracci ma con orgoglio!” Dare un senso è anche terapeutico. Se così non fosse nessuna donna ripeterebbe l’esperienza dolorosa del parto. Compito di un buon counselor è portare il sofferente a dare un senso alla propria condizione, a comprenderla per poterla rielaborare e farne il motore di una rinascita. Eliminarne la causa non sempre è possibile, con la sofferenza a volte ci si deve convivere ed in assenza di una sua rielaborazione si assiste all’annichilimento dello spirito, alla depressione, alla morte morale.

Quando ci si dedica all’aiuto di persone in difficoltà, dobbiamo indurle, per dirla in termini socratici, attraverso un lavoro maieutico, al parto delle proprie risorse e possibilità. Come disse Confucio: “Se vedi un affamato non dargli del riso: insegnagli a coltivarlo”. Per far questo è necessario conoscere la storia della Persona, senza soffermarsi troppo sui problemi che la affliggono. Un problema è infatti l’unica arma che in quel momento ha la persona per tollerare la sofferenza che la attanaglia. Ogni persona ha una propria storia, unica ed irripetibile. Un esempio di counseling agganciato alla storia: “Vincent si presentò al counselor piuttosto trasandato. Si percepiva in lui una sofferenza che lo stava anniettando. Un mese prima Vincent aveva scritto al fratello Theo relativamente al tentativo di esprimere la "mancanza di gioia ed estrema solitudine" dipingendo i campi di grano sotto cieli blu notte. Vincent si percepisce come sostituto, chiamato a compensare un’assenza ed a sostituire un’altra vita, quella del fratellino morto, nato esattamente un anno prima di lui e anch’esso di nome Vincent. Possedere un’identità di Altri è un fardello difficile da portare. Vincent, altruista e generoso, cerca un’identità propria, come predicatore leggendo la bibbia ai minatori nelle miniere di carbone del Belgio e cercando di aiutarli privando se stesso di abiti e cibo. Un comportamento che aveva infastidito le alte sfere ecclesiastiche determinando la sua rimozione dall’incarico. Forse il suo era stato un tentativo di emulare il padre, pastore protestante. Una risorsa tramutata in disfatta. Si iscrive ad una scuola d’arte portandosi dietro un senso di fallimento. Attraverso le tele esprime tutta la sofferenza, il suo peregrinare affettivo e di ricerca d’identità e d’amore. Tempo addietro, il 31 Gennaio, la moglie del fratello Theo, a cui Vincent era legatissimo, aveva partorito un figlio che la coppia chiama Vincent. Il colpo di grazia. Come il proiettile che lo trapasserà il 27 Luglio e che lo porterà alla morte due giorni dopo. Da sostituto dell’identità di un morto a sostituito dall’identità di un vivo. Gli episodi di automutilazione ed autolesionismo forse si leggono quale estremo tentativo di sentirsi esistere. Malgrado la creativa vena pittorica a Vincent Van Gogh non è stata probabilmente data la possibilità di sentirsi qualcuno, nessuno lo ha aiutato nella rielaborazione del proprio dramma interiore”. Da questa storia si ricava un altro insegnamento: il counseling non deve costituire una funzione vicariante della persona. Dobbiamo al contrario offrire un’occasione, un’opportunità di “vedere oltre” che coloro che soffrono stentano a trovare nella propria quotidianità, totalmente ripiegata sul problema. Un accenno al sociale: l’attualità non offre molte possibilità agli adolescenti. L’organizzazione sociale, permissiva ed esigente al tempo stesso, più propensa ai diritti e poco ai doveri da più valore a ciò che si fa piuttosto che a ciò che si è. La società del carpe diem ove è prassi cercare di cogliere l’istante senza pensare al domani. Tutte le istituzioni, all’interno delle quali in altri tempi si costruiva l’identità personale e sociale hanno subito nel tempo un’erosione dei valori. Ma gli adolescenti hanno necessità di proiettarsi nel futuro, hanno una necessità di speranza. La complessità dello scenario attuale, gravato da infinite contraddizioni non facilità questo lavoro di proiezione nel futuro. E’ una complessità mutevole, senza punti di riferimento, definita dal sociologo Zygmunt Bauman società liquida che conduce alla mortificazione della speranza e progettualità. Il dolore della perdita di speranza viene coperto dal desiderio oggettuale, dalla virtualizzazione della realtà, dalle sostanze, dalla ricerca del rischio estremo. Ma questo è un processo che innesca un ulteriore desiderio di possessione o di raggiungimento di un piacere immediato ma effimero, necessario per mantenere vivo il desiderio, per non entrare nel cono d’ombra della depressione. Questo infinito gioco di inappagamento è la porta d’accesso del nichilismo che il filosofo Umberto Galimberti definisce ospite inquietante. La mancanza di punti di riferimento crea smarrimento e confusione. Questa crisi progettuale rischia di essere ulteriormente minata nell’esperienza di malattia e di sofferenza chiudendo ulteriormente l’orizzonte di speranza. C’è una sofferenza che deriva dalla insufficienza valoriale e pedagogica di numerose famiglie che hanno abdicato dal ruolo educativo per rifugiarsi nel masochistico rispetto della libertà dei propri figli che, al contrario cercano una guida. Il quesito non è come in tale quadro si colloca il counseling, ma come vi si colloca il counselor! Il counselor è colui al quale si consegna la propria sofferenza, un riferimento per la speranza. E’ un compito difficile, impegnativo ma che non può prescindere da ciò che il counselor è, come professionista ma soprattutto come Persona. Un counselor adattato ad un sistema malato, un mero tecnocrate dotato di particolari abilità, non cura ma genera patologia. Il limitarsi a strategie cognitivo/comportamentali, come spesso avviene, è figlio di tale processo di adattamento. Adattarsi ad esempio ad una concezione della vita che stabilisca graduatorie di merito su chi deve o non deve vivere è un’aberrazione umana che peraltro è già stata percorsa nella storia con effetti nefasti. Il counselor deve quindi possedere una visione antropologica della Persona. Se si è privi di questa originaria visione si rischia di divenire dei semplici traghettatori verso l’adattamento. Nel counseling si deve compiere la riappropriazione della dignità della persona, unica vera arma contro l’adattamento. Viene da chiedersi dove sia finita la dignità di molte persone: disabili inseriti in strutture che li isolano dal mondo o gli anziani, non più economicamente utili al sistema, parcheggiati nelle residenze sanitarie assistenziali. La società attuale ha disimparato ad accogliere la sofferenza.

Il counseling è anche il luogo e momento della comprensione empatica, dell’uscita dalla solitudine interiore. La medicina attuale, centrata sulla tecnica e ancor peggio sull’economia, è una medicina priva di empatia. Una medicina che oggettivizza le persone nell’illusione che l’esproprio della soggettività sia un vantaggio terapeutico ritenendo che il non farsi coinvolgere dai propri pazienti o dalle situazioni sia un vantaggio per l’obiettività diagnostica e terapeutica. E’ innegabile che a volte ciò possa corrispondere alla realtà, ma è altrettanto vero che ignorare attivamente le sensazioni empatiche priva di un’arma terapeutica molto efficace, il paziente stesso. Certo, ci può essere lo spazio per un farmaco od un accertamento strumentale ma ciò non toglie che la relazione empatica tra medico e paziente sia un fattore determinante del processo d’aiuto.

Come ci ricorda Edith Stein “L’empatia è l’atto paradossale attraverso cui la realtà di “altro”, di ciò che non siamo, non abbiamo ancora vissuto o che non vivremo mai e che ci sposta altrove, nell’ignoto, diventa elemento dell’esperienza più intima cioè quella del sentire insieme che produce ampliamento ed espansione verso ciò che è oltre, imprevisto”. E’ inevitabile sotto tale aspetto che il processo empatico apra anche al noi, al sociale. In tal senso il counselor può rappresentare anche un terapeuta del sociale. Citando William Shakespeare “Quando nel dolore si hanno compagni che lo condividono, l’animo può superare molte sofferenze”.

Il counseling è il kairos, il tempo opportuno per dare un significato ed un valore alla propria persona. E’ momento opportuno per indurre una domanda etica, il saper distinguere ciò che è bene da ciò che è male, senza cadere nella trappola del relativismo imperante in nome della tanto decantata libertà personale. Nel counseling si genera un meccanismo di responsabilizzazione relativamente alla propria salute: non è solo il medico che cura ma il paziente diviene parte determinante del processo di guarigione osservando la propria sofferenza e prendendosene cura. Il medico ha dunque il compito “ostetrico” di far ri-nascere una persona. Certo non possiamo aiutare le persone a superare ogni sofferenza: si pensi ad esempio alle patologie croniche o debilitanti. Possiamo però far sì che le persone divengano consapevoli della propria sofferenza, dei propri limiti e che possano comunque trovare spazi in cui sentirsi qualcuno ed esprimere la propria persona e creatività. Nel counseling centrato sulla persona si esprime l’arte della Medicina nella sua accezione olistica ippocratica. Ippocrate è morto 2300 anni fa ma ritenere il suo insegnamento non attuale è stupidamente autolesionistico perché come disse lui medesimo “Rallegratevi dei vostri poteri interiori perché sono la fonte della vostra salute e della vostra perfezione”. Non c’è la pretesa della perfezione, ma attraverso la cultura, la preparazione, il sacrificio e la dedizione possiamo essere essere uomini riconoscibili dai malati come un “dono”, un’opportunità. Citando Thomas Mann: “L'interesse per la malattia e la morte è sempre e soltanto un'altra espressione dell'interesse per la vita”.

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