mercoledì 3 dicembre 2014

Ossessione iatrogena


Siamo certi che gli interventi educativi siano sempre utili? Negli ultimi anni nelle scuole si è fatto di tutto: educazione alimentare, sessuale, affettiva, prevenzione dell’Aids, educazione stradale e così via. Pochi si sono presi la briga di verificare l’esito di tali interventi. L’insorgenza di fenomeni paradossi, vale a dire un incremento dei comportamenti che si vorrebbero prevenire, è un fenomeno ampiamente descritto nella letteratura scientifica. Sono gli interventi educativi centrati sul problema. Fumo, droga, alcool e così via. Alcuni sono finalizzati addirittura ad eliminare la paura che, nella realtà, può risultare protettiva. Spesso si insiste sui problemi ingenerando atteggiamenti ossessivi. E’ il caso ad esempio dell’educazione alimentare che “perseguita” dalla scuola materna fino alle superiori. Ossessività dei messaggi che nei soggetti più fragili può ingenerare comportamenti di restrizione dietetica. (Gordon ha descritto anoressie da “imitazione”). A volte si assiste all’indegna rappresentazione della presenza nelle conferenze se non addirittura nelle aule scolastiche, di ex-tossicodipendenti che illustrano il loro percorso e come ne sono usciti. Tralasciando l’obiettivo propagandistico di qualche comunità che si nasconde dietro queste iniziative, viene certamente da chiedersi quale sia stato l’esito di tali percorsi se poi l’identità di una persona rimane comunque ancorata a quel mondo. O si è tossicodipendenti o non lo si è. Ex - tossicodipendente è e rimane un marchio d’identità. Sarebbe auspicabile adottare interventi educativi finalizzati al potenziamento dei fattori protettivi e a risvegliare la domanda spirituale di ognuno (educatori compresi). Il caso che segue è forse unico nel suo genere ma rende appieno il concetto che ogni intervento, anche nei suoi aspetti particolari, va adeguatamente ponderato.
Iniziò una mattina della metà di Marzo. Ricevetti una telefonata da parte di un professore di una scuola superiore che mi aveva “adottato” come consulente adolescentologo. C’era un problema emergente: un ragazzo di una classe seconda da circa una settimana giungeva a scuola con un sistematico ritardo, a volte un’ora, a volte due ore o poco meno. Ad ogni richiesta di spiegazioni da parte dei docenti il ragazzo si mostrava evasivo e non collaborante. La famiglia era stata informata. I genitori si mostrarono stupiti anche perché il ragazzo in casa aveva un comportamento che non dava adito a preoccupazioni.  Mi venne dunque chiesto di incontrare il ragazzo per chiarire questa situazione anche al fine di evitare provvedimenti disciplinari da parte della scuola.La mattina seguente dunque mi recai all’istituto dove in un locale attiguo alla segreteria incontrai il ragazzo. Marco, 15 anni, magro e slanciato entrò nella stanza con un’espressione seria dietro la quale si celava un sentimento di rabbia. Infatti, esordì dicendo a denti stretti “Sono qui perché mi hanno costretto, altrimenti non sarei venuto”. Un inizio di colloquio di quelli che non mi piacciono perché si ha la netta sensazione di trovarsi di fronte ad un muro appositamente innalzato per impedire un contatto relazionale ed anche visivo dato che Marco evitava il mio sguardo. Si poneva dunque sulla difensiva ed ero convinto si sarebbe trattato di una difesa ad oltranza molto determinata. Del resto ambedue conoscevamo il motivo del colloquio. Dovevo evitare uno scontro frontale quindi non risposi e mi limitai ad indicargli una sedia. Provocatoriamente ne prese due, una per appoggiarvi un piede. Che fare? Sottolineare il gesto poco educato? Far finta di nulla? Una decisione da prendere in pochi secondi. Non so se fu la cosa giusta da farsi ma per smontare il significato provocatorio di quel gesto feci la stessa cosa. A quel punto tolse il piede dalla sedia e si decise a guardarmi in faccia. Aveva un’espressione un po’ torva, di sfida, quasi a voler dire “ora vediamo che fai”.  Mi ero messo in trappola, non potevo togliere il piede. Avrei probabilmente innescato un circuito di provocazioni e controprovocazioni che avrebbero svuotato il colloquio. Il piede l’avrei tolto dieci minuti dopo. Gli chiesi quale fosse la sua materia preferita. Mi mise subito in crisi rispondendomi che voleva sapere il motivo della domanda. Risposi che ero curioso di conoscere le preferenze di qualcuno che ritenevo possedere un’aria intelligente. Mi aggredì: “Che ne sa se io sono intelligente o meno?”.Se non lo sei dimmelo subito così mi regolo” azzardai. Non disse nulla ma trattenne a stento un sorriso. Dopo un minuto ottenni una risposta: “Matematica, OK?”.Ora è il mio turno di chiederti il perché”. Perché è precisa, i conti tornano sempre”.Anche tu sei un tipo preciso?”Direi di sìE i conti ti tornano sempre?In che senso?” chiese con un aria un po’ sospettosa.A questo punto commisi l’errore  di portarlo sul terreno dove non voleva andare: “Arrivi tardi a scuola da una settimana”. Non rispose. Tentai di nuovo: “C’é forse qualche problema?”. Si arrabbiò e rizzandosi sulla sedia disse in tono sprezzante: “Non c’è nessun problema e se ci fosse sono fatti miei. Va bene?” Stupidamente insistei: “Quale segreto si nasconde dietro questi ritardi?”. Si riappoggiò allo schienale della sedia senza dire una parola con lo sguardo rivolto in basso a rimirarsi le dita di una mano. Dopo due minuti di silenzio alzandosi di scatto mi comunicò che doveva andarsene. A fatica riuscii a convincerlo a rivederci dopo tre giorni. “Non ne vedo la ragione” continuava a ripetere. Date le mie insistenze alla fine acconsentì.Perché avevo cercato lo scontro? fu la domanda che mi posi in seguito. Il suo atteggiamento provocatorio mi aveva indubbiamente urtato. “Come, io vengo apposta per parlarti e tu mi aggredisci? fu, me ne resi conto dopo, il pensiero ricorrente durante il colloquio. Volevo dimostrare d’essere capace di demolire quel muro andandoci contro a testa bassa fallendo miseramente. Ora stabilire un’alleanza terapeutica diventava più complicato. Il setting terapeutico peraltro non era dei migliori. I docenti si aspettavano un “referto” dal sottoscritto, una soluzione che mettesse fine alle più svariate illazioni fatte sul conto di Marco. Pareva fosse in atto un concorso a premi. Chi sosteneva la tesi della presenza di un’innamorata, chi addirittura di un “amichetto”, chi prospettava lo spettro della droga e così via.  Probabilmente avvertivo questa pressione, quest’ansia di sapere la verità e ciò mi aveva in qualche modo condizionato stimolando eccessivamente la mia curiosità e la presunzione d’essere colui che mostra il biglietto vincente. C’era poi la minaccia incombente di provvedimenti disciplinari a suo carico a mettermi fretta. Ma la fretta come si dice è cattivo consigliere. Prima dovevo conoscere Marco, il suo mondo, i suoi progetti e poi stimolare le sue risorse. Ai problemi avremmo pensato dopo. In pratica dovevo ricominciare da capo.Quando entrò per il secondo colloquio aveva un’aria dimessa. Mi salutò con un “Salve” e si sedette. Attesi qualche minuto pensando avesse qualcosa da dire ma invano. Se ne stava in silenzio sulla sedia guardandosi attorno con impazienza. Aspettava che fossi io a parlare. In quei tre giorni i ritardi erano continuati. Figlio unico, buon rendimento scolastico. I rapporti con i compagni li definiva molto buoni ed aperti. Il rapporto con i genitori lo descrisse buono, all’insegna della fiducia reciproca senza particolari conflitti. Nel tempo libero si dilettava con videogames d’avventura. Spesso il sabato sera si trovava con un gruppo di amici, anch’essi appassionati, per giocare insieme al computer. Uno dei suoi desideri era quello di poter diventare programmatore informatico nel settore dei giochi. Per conoscere tutto ciò occorse più di un’ora perché dovevo, come si dice, toglierli le parole di bocca con le pinze. Gli chiesi che giochi gli piacessero. “Quelli d’avventura, di ruolo, come Tomb Raider”. La conoscenza di questo gioco, avendoci giocato pure io, mi consentì di avere un aggancio empatico con Marco. “Cosa ti piace di Tomb Raider?” gli domandai. “Soprattutto la curiosità di vedere che accade nel livello successivo[1] e poi ti senti veramente un protagonista del gioco”. Discutemmo per un buon quarto d’ora di videogames notando una maggior spontaneità nell’eloquio che via via diveniva più fluido. Ora mi appariva un ragazzo diverso, ben inserito nel suo ambiente. Insomma un ragazzo del tutto normale.  Decisi a quel punto di entrare nel merito della questione che mi aveva portato lì. Invano; ogni volta che tentavo, se pur in modo delicato, di toccare l’argomento Marco si chiudeva nel silenzio. Utilizzai Tomb Raider: “Come, cerchi ad ogni modo di scoprire i segreti di un videogame e te ne costruisci uno per te. Prova a pensare come ti sentiresti se qualcuno ti impedisse di arrivare alla fine del gioco”. Aprii finalmente una breccia nel muro: “Se lo dico mi prendono per matto” .”Chi ti prende per matto?” domandai. “Tutti”. “ Il tutti sono io“ aggiunsi  e come sai esiste un segreto professionale quindi puoi essere certo che nessuno saprà nulla”.Per qualche minuto ci fu silenzio ma avvertivo che dentro Marco qualcosa si era messo in movimento. “Ci devo pensare “ disse ad un certo punto e mi chiese un incontro dopo una settimana. “Facciamo tre giorni? rilanciai. “OK, vada per i tre giorni”.Avevo preferito non insistere per dargli il tempo di riflettere. Una settimana era forse un lasso di tempo eccessivo. Non volevo correre il rischio che il tempo giocasse a sfavore.Al colloquio successivo si presentò piuttosto irrequieto. Non riusciva a star fermo sulla sedia. Era sulle spine. Dava la netta sensazione di volersi liberare di un peso che non sopportava più. Non ci fu bisogno di preamboli, iniziò a parlare spontaneamente senza guardarmi: “E’ una cosa un po’ scema” disse. Dopo qualche secondo di attesa riprese: “Mi sento costretto ogni mattina prima di venire a scuola a fermarmi ad un incrocio”. Si interruppe e mi guardò. Non dissi nulla ma il mio sguardo incuriosito lo indusse a proseguire. “Lì, piazzato vicino al semaforo, devo contare quindici macchine”. Un’ossessione pensai ma non riuscivo a capire. Era un incrocio che conoscevo, piuttosto trafficato. Quindici auto passano in un minuto mentre i ritardi scolastici alcune volte arrivavano fino alle due ore. Che accadeva nel tempo che avanzava? Gli enunciai questa mia perplessità: “Non mi tornano i conti” dissi, “Una o due ore per quindici auto mi sembrano decisamente troppe. E’ un incrocio trafficato”.” continuò parlando a testa china, “ però le auto devono essere di un certo modello”. Chiesi ovviamente di quale modello si trattasse. “Lancia Y” fu la sua risposta. Non ricordo con quale espressione lo guardai ma esclamò “Ha visto che era una cosa scema?”. La matassa cominciava a sbrogliarsi ma ora si facevano strada altre domande. Che significato aveva per Marco quel modello di auto? Glielo chiesi. Rispose in modo deciso e perentorio: “Non lo so. Non ne ho idea”. Troppo deciso per essere vero pensai. Nascondeva ancora qualcosa. Il mistero era lì, racchiuso in quel modello di auto. Iniziai a fare le più svariate congetture sottoponendole a Marco. Era forse stato coinvolto in un incidente con quel modello d’auto oppure ad un incidente vi aveva assistito? Gli piaceva forse una ragazza che possedeva quell’auto? Non sapevo che altro pensare. Ogni ipotesi veniva sistematicamente smentita. Eravamo entrambi stanchi; il colloquio si stava protraendo da oltre un’ora e mezza. Di lì a tre giorni le scuole avrebbero chiuso per le vacanze pasquali e da parte mia mi aspettavano una decina di giorni di ferie per cui per almeno quindici giorni non l’avrei più visto. Gli diedi quindi appuntamento dopo una ventina di giorni quando sarei tornato nell’istituto per tenere un corso di educazione sessuale in alcune classi.Lo accompagnai alla porta e mentre la stavo aprendo all’improvviso mi disse che nella sua classe l’avevano già fatto. “Che cosa?” chiesi un po’ distrattamente assorto nei miei pensieri. “Il corso”.Con ancora la porta semiaperta gli domandai chi l’avesse tenuto e di cosa si fosse parlato. Una semplice curiosità professionale.E’ venuta una psicologa che ci ha parlato dei tanti aspetti della sessualità ed anche di cosa succede se manca il cromosoma sessuale maschile”.Fui come colpito da un lampo : “Vuoi vedere che?...”Richiusi la porta e gli chiesi cosa avesse detto la psicologa a proposito del cromosoma. “Si è un po’ effeminati” disse lui con un’espressione seria. “Tu che pensi?” incalzai. “Magari mi manca un cromosoma”.Cosa te lo fa credere?”.Non lo so, però in classe due miei compagni hanno fatto una battuta dicendo che forse a me il cromosoma Y mancava. Si sono messi a ridere tutti. Mi sono sentito osservato. Forse lo pensano per davvero e magari si vede pure”.Lo invitai a risedersi. Presi un foglio e dando uno spolvero alle mie nozioni di genetica gli illustrai la Sindrome di Turner per spiegargli che era impossibile che gli mancasse il cromosoma Y. Mancava o alle femmine o al Turner, non certo a lui. Mi chiese altre delucidazioni che gli diedi ed alla fine apparve rasserenato. Lo riaccompagnai alla porta e tranquillizzandolo di nuovo lo salutai. Nei giorni successivi i ritardi scomparvero improvvisamente così come erano venuti. Dopo venti giorni fu sufficiente un saluto lungo il corridoio per capire che stava bene. Non ci furono ulteriori colloqui. Nessuna spiegazione venne data ai docenti e per sua scelta nemmeno ai genitori che ricevettero rassicurazioni da parte mia.Un’ossessione ingenerata da una battuta durante un corso di educazione sessuale. Quante se ne dicono per stemperare l’ansia gruppale. Senza pensarci. Senza pensare che in un soggetto psicologicamente fragile in quanto alla ricerca di una propria identità possono lasciare una traccia.A Marco una battuta rinforzata dall’atteggiamento dei compagni di classe aveva fatto credere di essere sprovvisto di cromosoma Y. Quel cromosoma che veniva reintegrato nella sua mente dal passaggio della Lancia Y che lo rappresentava. Un’associazione semantica che si era tramuta in ossessione, un ossessione che, pur riconoscendone l’assurdità (il “è una cosa scema” ripetuto più volte), però gli consentiva di andare a scuola tranquillo, sicuro della propria identità sessuale. Quindici auto, come la sua età. Rivelare tutto ciò avrebbe comportato forse l’esposizione al ridicolo. Perché dunque ad un certo punto si decise a rivelare questo segreto? Le ossessioni prima o poi divengono intollerabili in quanto condizionanti la quotidianità. Marco non avrebbe potuto reggere a lungo la sua ossessione. Iniziava a divenire oggetto di eccessiva attenzione da parte dei compagni di classe,docenti e genitori. Avrebbe potuto mantenere questo assillante segreto di fronte ad un provvedimento disciplinare? E  la fiducia che i suoi genitori riponevano in lui   che fine avrebbe fatto? Probabilmente furono queste le sue riflessioni che lo portarono a confidarsi cogliendo l’opportunità di non esporsi al ridicolo stante il segreto professionale.Come fu sufficiente una battuta ad ingenerare il problema allo stesso modo una semplice spiegazione lo risolse. Due atti, di per sé banali, che però racchiudono una storia, una sofferenza, un lavoro d’identità.

Pubblicato in lingua inglese su Medicine , Mind and adolescence , 2001 , Vol.XVI , n1-2

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