Siamo certi che gli interventi educativi siano
sempre utili? Negli ultimi anni nelle scuole si è fatto di tutto: educazione
alimentare, sessuale, affettiva, prevenzione dell’Aids, educazione stradale e
così via. Pochi si sono presi la briga di verificare l’esito di tali
interventi. L’insorgenza di fenomeni paradossi, vale a dire un incremento dei
comportamenti che si vorrebbero prevenire, è un fenomeno ampiamente descritto
nella letteratura scientifica. Sono gli interventi educativi centrati sul
problema. Fumo, droga, alcool e così via. Alcuni sono finalizzati addirittura
ad eliminare la paura che, nella realtà, può risultare protettiva. Spesso si
insiste sui problemi ingenerando atteggiamenti ossessivi. E’ il caso ad esempio
dell’educazione alimentare che “perseguita” dalla scuola materna fino alle
superiori. Ossessività dei messaggi che nei soggetti più fragili può ingenerare
comportamenti di restrizione dietetica. (Gordon ha descritto anoressie da
“imitazione”). A volte si assiste all’indegna rappresentazione della presenza
nelle conferenze se non addirittura nelle aule scolastiche, di
ex-tossicodipendenti che illustrano il loro percorso e come ne sono usciti.
Tralasciando l’obiettivo propagandistico di qualche comunità che si nasconde
dietro queste iniziative, viene certamente da chiedersi quale sia stato l’esito
di tali percorsi se poi l’identità di una persona rimane comunque ancorata a
quel mondo. O si è tossicodipendenti o non lo si è. Ex - tossicodipendente è e
rimane un marchio d’identità. Sarebbe auspicabile adottare interventi educativi
finalizzati al potenziamento dei fattori protettivi e a risvegliare la domanda
spirituale di ognuno (educatori compresi). Il caso che segue è forse unico nel
suo genere ma rende appieno il concetto che ogni intervento, anche nei suoi
aspetti particolari, va adeguatamente ponderato.
Iniziò una mattina della metà di Marzo. Ricevetti una telefonata
da parte di un professore di una scuola superiore che mi aveva “adottato” come
consulente adolescentologo. C’era un problema emergente: un ragazzo di una
classe seconda da circa una settimana giungeva a scuola con un sistematico
ritardo, a volte un’ora, a volte due ore o poco meno. Ad ogni richiesta di spiegazioni da parte dei docenti il ragazzo si mostrava evasivo e non collaborante. La
famiglia era stata informata. I genitori si mostrarono stupiti anche
perché il ragazzo in casa aveva un comportamento che non dava adito a
preoccupazioni. Mi venne dunque chiesto
di incontrare il ragazzo per chiarire questa situazione anche al fine di
evitare provvedimenti disciplinari da parte della scuola.La mattina seguente dunque mi recai all’istituto dove in un locale
attiguo alla segreteria incontrai il ragazzo. Marco, 15 anni, magro e slanciato
entrò nella stanza con un’espressione seria dietro la quale si celava un
sentimento di rabbia. Infatti, esordì dicendo a denti stretti “Sono qui perché mi hanno costretto,
altrimenti non sarei venuto”. Un inizio di colloquio di quelli che non mi
piacciono perché si ha la netta sensazione di trovarsi di fronte ad un muro
appositamente innalzato per impedire un contatto relazionale ed anche visivo dato che Marco evitava il mio sguardo. Si poneva dunque sulla difensiva ed ero
convinto si sarebbe trattato di una difesa ad oltranza molto determinata. Del
resto ambedue conoscevamo il motivo del colloquio. Dovevo evitare uno scontro
frontale quindi non risposi e mi limitai ad indicargli una sedia.
Provocatoriamente ne prese due, una per appoggiarvi un piede. Che fare?
Sottolineare il gesto poco educato? Far finta di nulla? Una decisione da
prendere in pochi secondi. Non so se fu la cosa giusta da farsi ma per smontare
il significato provocatorio di quel gesto feci la stessa cosa. A quel punto
tolse il piede dalla sedia e si decise a guardarmi in faccia. Aveva
un’espressione un po’ torva, di sfida, quasi a voler dire “ora vediamo che
fai”. Mi ero messo in trappola, non
potevo togliere il piede. Avrei probabilmente innescato un circuito di
provocazioni e controprovocazioni che avrebbero svuotato il colloquio. Il piede
l’avrei tolto dieci minuti dopo. Gli chiesi quale fosse la sua materia preferita. Mi mise subito in
crisi rispondendomi che voleva sapere il motivo della domanda. Risposi che ero
curioso di conoscere le preferenze di qualcuno che ritenevo possedere un’aria
intelligente. Mi aggredì: “Che ne sa se io sono intelligente o meno?”.“Se non lo sei dimmelo subito così mi regolo” azzardai. Non disse
nulla ma trattenne a stento un sorriso. Dopo un minuto ottenni una risposta: “Matematica, OK?”.“Ora è il mio turno di chiederti
il perché”. “Perché è precisa, i conti tornano sempre”.“Anche tu sei un tipo preciso?”“Direi di s씓E i conti ti tornano sempre?”“In che senso?” chiese con un aria un po’ sospettosa.A questo punto commisi l’errore
di portarlo sul terreno dove non voleva andare: “Arrivi tardi a scuola
da una settimana”. Non rispose. Tentai di nuovo: “C’é forse qualche problema?”.
Si arrabbiò e rizzandosi sulla sedia disse in tono sprezzante: “Non c’è nessun problema e se ci fosse sono
fatti miei. Va bene?” Stupidamente insistei: “Quale segreto si nasconde
dietro questi ritardi?”. Si riappoggiò allo schienale della sedia senza dire
una parola con lo sguardo rivolto in basso a rimirarsi le dita di una mano.
Dopo due minuti di silenzio alzandosi di scatto mi comunicò che doveva
andarsene. A fatica riuscii a convincerlo a rivederci dopo tre giorni. “Non ne vedo la ragione” continuava a
ripetere. Date le mie insistenze alla fine acconsentì.Perché avevo cercato lo scontro? fu la domanda che mi posi in seguito.
Il suo atteggiamento provocatorio mi aveva indubbiamente urtato. “Come, io
vengo apposta per parlarti e tu mi aggredisci?” fu, me ne resi conto dopo, il pensiero ricorrente durante il colloquio.
Volevo dimostrare d’essere capace di demolire quel muro andandoci contro a
testa bassa fallendo miseramente. Ora stabilire un’alleanza terapeutica
diventava più complicato. Il setting terapeutico peraltro non era dei migliori.
I docenti si aspettavano un “referto” dal sottoscritto, una soluzione che mettesse
fine alle più svariate illazioni fatte sul conto di Marco. Pareva fosse in atto
un concorso a premi. Chi sosteneva la tesi della presenza di un’innamorata, chi
addirittura di un “amichetto”, chi prospettava lo spettro della droga e così
via. Probabilmente avvertivo questa
pressione, quest’ansia di sapere la verità e ciò mi aveva in qualche modo condizionato stimolando eccessivamente la
mia curiosità e la presunzione d’essere colui che mostra il biglietto vincente.
C’era poi la minaccia incombente di provvedimenti disciplinari a suo carico a
mettermi fretta. Ma la fretta come si dice è cattivo consigliere. Prima dovevo
conoscere Marco, il suo mondo, i suoi progetti e poi stimolare le sue risorse.
Ai problemi avremmo pensato dopo. In pratica dovevo ricominciare da capo.Quando entrò per il secondo colloquio aveva un’aria dimessa. Mi
salutò con un “Salve” e si sedette. Attesi qualche minuto pensando avesse
qualcosa da dire ma invano. Se ne stava in silenzio sulla sedia guardandosi
attorno con impazienza. Aspettava che fossi io a parlare. In quei tre giorni i
ritardi erano continuati. Figlio unico, buon rendimento scolastico. I rapporti con i
compagni li definiva molto buoni ed aperti. Il rapporto con i genitori lo
descrisse buono, all’insegna della fiducia reciproca senza particolari
conflitti. Nel tempo libero si dilettava con videogames d’avventura. Spesso il
sabato sera si trovava con un gruppo di amici, anch’essi appassionati, per
giocare insieme al computer. Uno dei suoi desideri era quello di poter diventare
programmatore informatico nel settore dei giochi. Per conoscere tutto ciò
occorse più di un’ora perché dovevo, come si dice, toglierli le parole di bocca
con le pinze. Gli chiesi che giochi gli piacessero. “Quelli d’avventura, di ruolo, come Tomb Raider”. La conoscenza di
questo gioco, avendoci giocato pure io, mi consentì di avere un aggancio
empatico con Marco. “Cosa ti piace di Tomb Raider?” gli domandai. “Soprattutto la curiosità di vedere che
accade nel livello successivo[1]
e poi ti senti veramente un protagonista del gioco”. Discutemmo per un buon
quarto d’ora di videogames notando una maggior spontaneità nell’eloquio che via
via diveniva più fluido. Ora mi appariva un ragazzo diverso, ben inserito nel
suo ambiente. Insomma un ragazzo del tutto normale. Decisi a quel punto di entrare nel merito
della questione che mi aveva portato lì. Invano; ogni volta che tentavo, se pur in modo delicato, di toccare
l’argomento Marco si chiudeva nel silenzio. Utilizzai Tomb Raider: “Come,
cerchi ad ogni modo di scoprire i segreti di un videogame e te ne costruisci
uno per te. Prova a pensare come ti sentiresti se qualcuno ti impedisse di
arrivare alla fine del gioco”. Aprii finalmente una breccia nel muro: “Se lo dico mi prendono per matto” .”Chi
ti prende per matto?” domandai. “Tutti”.
“ Il tutti sono io“ aggiunsi “e come sai
esiste un segreto professionale quindi puoi essere certo che nessuno saprà
nulla”.Per qualche minuto ci fu silenzio ma avvertivo che dentro Marco
qualcosa si era messo in movimento. “Ci
devo pensare “ disse ad un certo punto e mi chiese un incontro dopo una
settimana. “Facciamo tre giorni? rilanciai.
“OK, vada per i tre giorni”.Avevo preferito non insistere per dargli il tempo di riflettere.
Una settimana era forse un lasso di tempo eccessivo. Non volevo correre il
rischio che il tempo giocasse a sfavore.Al colloquio successivo si presentò piuttosto irrequieto. Non
riusciva a star fermo sulla sedia. Era sulle spine. Dava la netta sensazione di
volersi liberare di un peso che non sopportava più. Non ci fu bisogno di preamboli, iniziò a parlare spontaneamente
senza guardarmi: “E’ una cosa un po’
scema” disse. Dopo qualche secondo di attesa riprese: “Mi sento costretto ogni mattina prima di venire a scuola a fermarmi ad
un incrocio”. Si interruppe e mi guardò. Non dissi nulla ma il mio sguardo
incuriosito lo indusse a proseguire. “Lì,
piazzato vicino al semaforo, devo contare quindici macchine”. Un’ossessione
pensai ma non riuscivo a capire. Era un incrocio che conoscevo, piuttosto
trafficato. Quindici auto passano in un minuto mentre i ritardi scolastici
alcune volte arrivavano fino alle due ore. Che accadeva nel tempo che avanzava?
Gli enunciai questa mia perplessità: “Non mi tornano i conti”
dissi, “Una o due ore per quindici auto mi sembrano decisamente troppe. E’ un
incrocio trafficato”.“Sì” continuò parlando a
testa china, “ però le auto devono essere
di un certo modello”. Chiesi ovviamente di quale modello si trattasse. “Lancia Y” fu la sua risposta. Non
ricordo con quale espressione lo guardai ma esclamò “Ha visto che era una cosa scema?”. La matassa cominciava a
sbrogliarsi ma ora si facevano strada altre domande. Che significato aveva per
Marco quel modello di auto? Glielo chiesi. Rispose in modo deciso e perentorio:
“Non lo so. Non ne ho idea”. Troppo
deciso per essere vero pensai. Nascondeva ancora qualcosa. Il mistero era lì,
racchiuso in quel modello di auto. Iniziai a fare le più svariate congetture
sottoponendole a Marco. Era forse stato coinvolto in un incidente con quel modello
d’auto oppure ad un incidente vi aveva assistito? Gli piaceva forse una ragazza
che possedeva quell’auto? Non sapevo che altro pensare. Ogni ipotesi veniva
sistematicamente smentita. Eravamo entrambi stanchi; il colloquio si stava
protraendo da oltre un’ora e mezza. Di lì a tre giorni le scuole avrebbero
chiuso per le vacanze pasquali e da parte mia mi aspettavano una decina di
giorni di ferie per cui per almeno quindici giorni non l’avrei più visto. Gli
diedi quindi appuntamento dopo una ventina di giorni quando sarei tornato
nell’istituto per tenere un corso di educazione sessuale in alcune classi.Lo accompagnai alla porta e mentre la stavo aprendo all’improvviso
mi disse che nella sua classe l’avevano già fatto. “Che cosa?” chiesi un po’
distrattamente assorto nei miei pensieri. “Il
corso”.Con ancora la porta semiaperta gli domandai chi l’avesse tenuto e
di cosa si fosse parlato. Una semplice curiosità professionale.“E’ venuta una psicologa che
ci ha parlato dei tanti aspetti della sessualità ed anche di cosa succede se
manca il cromosoma sessuale maschile”.Fui come colpito da un lampo : “Vuoi vedere che?...”Richiusi la porta e gli chiesi cosa avesse detto la psicologa a
proposito del cromosoma. “Si è un po’
effeminati” disse lui con un’espressione seria. “Tu che pensi?” incalzai. “Magari mi manca un cromosoma”.“Cosa te lo fa credere?”.“Non lo so, però in classe
due miei compagni hanno fatto una battuta dicendo che forse a me il cromosoma Y
mancava. Si sono messi a ridere tutti. Mi sono sentito osservato. Forse lo
pensano per davvero e magari si vede pure”.Lo invitai a risedersi. Presi un foglio e dando uno spolvero alle
mie nozioni di genetica gli illustrai la Sindrome di Turner per spiegargli che era
impossibile che gli mancasse il cromosoma Y. Mancava o alle femmine o al
Turner, non certo a lui. Mi chiese altre delucidazioni che gli diedi ed alla
fine apparve rasserenato. Lo riaccompagnai alla porta e tranquillizzandolo di
nuovo lo salutai. Nei giorni successivi i ritardi scomparvero improvvisamente
così come erano venuti. Dopo venti giorni fu sufficiente un saluto lungo il
corridoio per capire che stava bene. Non ci furono ulteriori colloqui. Nessuna
spiegazione venne data ai docenti e per sua scelta nemmeno ai genitori che
ricevettero rassicurazioni da parte mia.Un’ossessione ingenerata da una battuta durante un corso di
educazione sessuale. Quante se ne dicono per stemperare l’ansia gruppale. Senza
pensarci. Senza pensare che in un soggetto psicologicamente fragile in quanto
alla ricerca di una propria identità possono lasciare una traccia.A Marco una battuta rinforzata dall’atteggiamento dei compagni di
classe aveva fatto credere di essere sprovvisto di cromosoma Y. Quel cromosoma
che veniva reintegrato nella sua mente dal passaggio della Lancia Y che lo
rappresentava. Un’associazione semantica che si era tramuta in ossessione, un
ossessione che, pur riconoscendone l’assurdità (il “è una cosa scema” ripetuto
più volte), però gli consentiva di andare a scuola tranquillo, sicuro della
propria identità sessuale. Quindici auto, come la sua età. Rivelare tutto ciò
avrebbe comportato forse l’esposizione al ridicolo. Perché dunque ad un certo
punto si decise a rivelare questo segreto? Le ossessioni prima o poi divengono
intollerabili in quanto condizionanti la quotidianità. Marco non avrebbe potuto
reggere a lungo la sua ossessione. Iniziava a divenire oggetto di eccessiva
attenzione da parte dei compagni di classe,docenti e genitori. Avrebbe potuto
mantenere questo assillante segreto di fronte ad un provvedimento disciplinare?
E la fiducia che i suoi genitori
riponevano in lui che fine avrebbe
fatto? Probabilmente furono queste le sue riflessioni che lo portarono a
confidarsi cogliendo l’opportunità di non esporsi al ridicolo stante il segreto
professionale.Come fu sufficiente una battuta ad ingenerare il problema allo
stesso modo una semplice spiegazione lo risolse. Due atti, di per sé banali,
che però racchiudono una storia, una sofferenza, un lavoro d’identità.
Pubblicato in
lingua inglese su Medicine , Mind and adolescence , 2001 , Vol.XVI , n1-2
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