venerdì 27 agosto 2010

Ritratto dell'anoressia


Entrare nel mondo dei disturbi del comportamento alimentare significa esplorare una dimensione del tutto particolare governata da un tiranno, amato e odiato, rispettato e temuto nel medesimo tempo: il cibo. Ma non è l'alimento ad essere il problema: è la persona ad elevare il cibo al rango di tiranno.
 Attraverso il despota si governa il mondo, la propria vita, i propri familiari. Attraverso di lui si sperimenta il potere, il dominio; ci si sente qualcuno al di sopra di tutto e di tutti. Ma è un potere effimero che prima o poi sfugge al controllo e da dominatori si diviene succubi fino all'annullamento totale, al disprezzo di sé, all'autodistruzione. Eppure, andando oltre quell'impressione iniziale di rigidità, di ostinazione, di sicurezza, si intravedono, nascoste dietro questa maschera, e poi successivamente si rivelano, una grande disperazione, una estrema sofferenza ed insicurezza. Il cibo assume una valenza comunicativa: il divenire sintomo rivela un bisogno nel quale si può identificare l'aspirazione legittima di ogni essere umano, cioè l'esistere come essere unico ed irripetibile. E il filo conduttore che lega, pur nella loro unicità, le persone anoressico/bulimiche, è questo voler esserci, la ricerca di un'identità e di un senso. La bulimia e l’anoressia non sono patologie ma sintomo di una soluzione terapeutica della persona ad un dramma esistenziale. In un'epoca nella quale il culto dell'efficienza e dell'immagine dominano la scena vi è il rischio che una persona intenta alla costruzione della propria identità, tenda a spostare l'attenzione dal sé all'estetica. Si finisce per rapportare il proprio valore, la propria autostima ai Kg, ai centimetri, alle forme corporee. Ma perché questa soluzione e non altre? Perché cercare a tutti i costi la magrezza? E’ possibile che ciò sia in relazione alla ricerca di un ruolo da parte della donna che, nella attuale organizzazione sociale, si trova a sostenere il conflitto tra ruolo materno, connatu-rato al fatto di nascere femmine, e realizzazione professionale richiesta dai canoni culturali attuali (una donna manager obesa non suscita troppi entusiasmi…). Annullare la propria identità femminile (l’amenorrea è sintomo cardine dell’anoressia) diventa allora necessario per sentirsi accettate e valorizzate. Non va dimenticato che nell’attualità storica si assiste quotidianamente all’annullamento della donna madre (contraccezione, aborto, bassa natalità). In effetti l’incremento di tali problematiche si è avuto proprio in coincidenza della cosiddetta rivoluzione femminista negli anni 60. Contraddizione palese il voler rimarcare il proprio ruolo uniformandolo a quello maschile. E' inevitabile che questo "non-esserci", questo "apparire" determini prima o poi un vuoto, un vissuto di inutilità e di inadeguatezza. Un vuoto proiettato in un futuro altrettanto vuoto. Una ricerca disperata di identità. Il "troppo" o il "niente" alimentari come modalità di recupero del sé, di una presenza reale. L'accoglienza in tale quadro diviene fondamentale. Accogliere una persona significa già attribuirle un'identità: quella di essere umano e non di paziente che spesso viene catalogato come un bagaglio (presa in carico, restituzione!). E' facile "dialogando" con una persona anoressico/bulimica avvertire un senso di impotenza. Si ha cioè l'impressione di essere in una strada senza sbocchi, di sbattere contro un muro e dunque di vivere le identiche sensazioni di fallimento e d'impasse che vivono gli stessi pazienti. La via d'uscita per il terapeuta a quel punto è di considerare la persona un paziente cronico, una soluzione che toglie peraltro ogni responsabilità e ci "salva" professionalmente, magari delegando il tutto ad un farmaco. C’è un dipinto di Magritte che rappresenta un enorme masso posto su una montagna. Sembra in bilico, pronto a cadere. Questo dipinto io lo considero la metafora dell’inguaribilità. Il masso incuriosisce per la sua dislocazione ma al tempo stesso mette paura. Si rischia di esserne investiti. Meglio girare al largo, magari mandarci qualcun altro, oppure ignorarlo lasciandolo al proprio destino. O ancora tentare di puntellarlo. In ogni caso lo vedremo sempre come un masso “anomalo”. Certo forse esiste anche l'irrecuperabile, ma dovremmo quanto meno interrogarci sul senso di certi percorsi terapeutici che scotomizzano la persona. Porsi da subito obiettivi “standardizzati” su un modello eziologico espone queste persone al senso di fallimento precipitandole ancor di più nella depressione, nella disistima di sé. Al contrario stimolarle, apprezzarne i tentativi , anche quelli non andati a buon fine, agire sulle loro risorse, mettendo da parte il problema, restituisce loro un senso di dignità che è aspetto fondamentale e decisivo per indurre dei miglioramenti.

Tratto da "Il counseling medico centrato sulla persona"

1 commento:

  1. Ho trovato molto interessante questo post che affronta un tema difficile che non si sa mai come trattare in maniera adeguata

    chimicionline

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